Quarantuno anni fa la mafia uccideva il maresciallo Calogero Di Bona

Il vice comandante, in servizio all’Ucciardone – che oggi porta il suo nome – si era opposto all’arroganza dei boss mafiosi detenuti. Un servitore integerrimo dello Stato che pagò con la propria vita la fedeltà alla legge e alle regole

Fedele fino in fondo alla legge – quella dello Stato – ma soprattutto alla sua legge morale, che gli impediva di accettare qualsiasi forma di malcostume nelle celle penitenziarie, dove voleva portare ordine, rispetto delle regole e legalità malgrado l’arrogante potere esercitato dai boss mafiosi. 

Originario di Villarosa, nell’ennese, Calogero Di Bona, padre di tre figli, vice comandante degli agenti della Polizia Penitenziaria, venne ucciso il 28 agosto 1979 dai boss Salvatore Liga, Saro Riccobono e Salvatore Lo Piccolo: i mafiosi lo rapirono, strangolarono e bruciarono il suo corpo in un forno. 

Era una giornata di fine estate, e Di Bona – che era entrato nel Corpo degli Agenti di Custodia come guardia nel 1964 fino a diventare maresciallo ordinario – scomparve misteriosamente da Palermo, dove prestava servizio presso l’Ucciardone, primo istituto penitenziario del capoluogo siciliano. 

L’uomo, che il giorno seguente avrebbe compiuto trentacinque anni, passeggiava per le vie della borgata marinara di Sferracavallo, il suo quartiere: la moglie Rosa Cracchiolo spiegò che il marito era uscito per andare al bar a prendere un caffè, dopo avere accompagnato lei e i figli dalla nonna, ma da quel momento i familiari non lo videro più. 

Fu il magistrato Rocco Chinnici a occuparsi delle indagini, dalle quali emerse con chiarezze che le ragioni della scomparsa erano legate all’attività svolta all’interno del carcere: Di Bona era intransigente dinanzi ai privilegi di certi reclusi, abituati a champagne e formaggi francesi, e aveva tenato di opporsi all’odiosa prassi di ossequio ai mafiosi, serviti e riveriti in un momento storico in cui la ribellione della società civile non aveva ancora preso forma. 

Con la strage in cui perse la vita Chinnici, avvenuta nel 1983 – un’autobomba al tritolo venne fatta esplodere davanti all’abitazione del giudice, in via Pipitone Federico a Palermo,uccidendo lui, due carabinieri di scorta e il portiere dello stabile – si affievolì la speranza di fare luce sulla morte di Di Bona e sulle reali motivazioni che avevano indotto i mafiosi a liberarsi di lui. 

Grazie alla tenacia dei familiari, il caso venne poi riaperto: furono i figli a lanciare l’invito a cercare, fra gli atti giudiziari, possibili elementi in grado di stabilire la verità

Gli accertamenti e l’attività investigativa, affidati alla Dia, dopo circa trent’anni, hanno condotto ai colpevoli dell’omicidio, confermando come fosse stata proprio l’attività di Di Bona la causa della terribile reazione dei mafiosi, andati su tutte le furie a seguito di un’ispezione all’Ucciardone dove, proprio un agente della sua squadra, era stato picchiato a sangue dal boss Michele Micalizzi e da altri malavitosi. 

Un raid rimasto impunito da parte della direzione del carcere ma non tollerato da alcuni agenti che denunciarono la vicenda alla Procura generale e a L’Ora: da qui, l’ira dei mafiosi e il rapimento di Di Bona, consegnato a una fine atroce. 

 Palermo e le istituzioni hanno scelto di ricordare il supremo sacrificio compiuto dal poliziotto penitenziario in due modi diversi: con l’intitolazione della Casa di Relusione Ucciardone, l’8 gennaio del 2018, e con un albero piantumato, il 28 agosto dello stesso anno, nel Giardino della Memoria di Ciaculli, un parco dedicato a tutti coloro che, a vario titolo, hanno perso la vita nella lotta alla mafia.

Due tributi dal valore fortemente simbolico ma essenziali per ricordare alla collettività il ruolo nevralgico svolto dalla Polizia Penitenziaria a tutela della sicurezza della collettività e della tenuta democratica del Paese : “Despondere spem munus nostrum” (garantire la speranza è il nostro compito) si legge nella lista d’oro alla base dello stemma araldico. 

Compiti resi sempre più difficili dalle innumerevoli criticità che caratterizzano il Corpo – che di recente ha celebrato il duecentotreesimo anniversario della fondazione –  a partire dalla storica carenza di organico: sovraffollamento, disagi operativi, tagli al comparto sicurezza, turni di lavoro estenuanti, aggressioni da parte dei detenuti, stress e un elevato numero di suicidi che testimonia il malessere estremo di una categoria in prima linea anche nella gestione delle emergenze.