Cronaca di Palermo

Una morte non cancella l’altra: perché il suicidio di Argentino è una sconfitta

“Uno in meno”, “Doveva farlo prima”, “Vigliacco”. Sono solo alcuni dei commenti comparsi in rete dopo la notizia della morte di Stefano Argentino, il 27enne che lo scorso 31 marzo ha ucciso Sara Campanella, studentessa di 22 anni di Misilmeri, sua collega universitaria, dopo mesi di stalking, ossessioni e pedinamenti.

Argentino si è tolto la vita in carcere, dove attendeva la prima udienza del processo fissata il 10 settembre. Era tornato da solo nella sua cella mentre gli altri detenuti non erano ancora rientrati dall’ora d’aria, trovando il tempo e il modo di impiccarsi. Aveva già manifestato in precedenza intenti suicidi, tanto da essere stato messo sotto sorveglianza, misura che però gli era stata revocata da circa due settimane.

Quella di Stefano Argentino non è una morte che porta sollievo. Non è giustizia. Non è una risposta. È una tragedia che si somma a quella di Sara. È un fallimento collettivo di tutti: le istituzioni, la giustizia, il sistema penitenziario. Abbiamo fallito due volte.

Abbiamo fallito quando non siamo stati in grado di tutelare la vita di Stefano Argentino, una volta affidato alla custodia dello Stato. Sì perché quando lo Stato prende in carico un individuo, anche se accusato di un crimine atroce, ha il dovere di custodirlo, fisicamente e psicologicamente, fino a quando la giustizia non farà il suo corso. Non per pietà, ma per responsabilità. Per garantire che i processi si svolgano, che le responsabilità vengano accertate, che le famiglie delle vittime abbiano giustizia e non vendetta.

Ed ecco il secondo fallimento. La morte in carcere di Argentino ha sottratto alla famiglia di Sara Campanella il diritto a un processo, a una sentenza, a una verità piena. Ci ha lasciato con un’altra morte irrisolta, con un’altra domanda: “Come possiamo ancora permettere tutto questo?”

Nessuno intende minimizzare le responsabilità di Argentino, né tantomeno assolverlo. Ma ciò non giustifica il compiacimento per la sua morte. Non si può invocare giustizia sulla morte di un ragazzo di 27 anni, sulle rovine di una psiche già fragile. La sua morte non è una liberazione. È il segnale di un sistema che non sa prendersi cura, che arriva sempre troppo tardi. In questa storia non ci sono vincitori, solo due giovani vite spezzate, e un’ombra su tutti noi.

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Cristina Riggio